Nell’apprendistato professionalizzante del Jobs Act se il lavoratore si rivela non idoneo, il datore può licenziarlo per giustificato motivo oggettivo senza obbligo di repêchage: il contratto ha natura mista, in quanto finalizzato al conseguimento della qualifica e se dunque l’interessato non risulta adeguato sul piano fisico o psichico, il datore non può impartirgli la formazione.
E ha quindi facoltà di recedere dal contratto senza dover cercare mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore per reimpiegarlo. Così la Corte di cassazione civile, sez. lavoro, nella sentenza n. 30657 del 28/11/2024.
Formazione fondamentale. Accolto il ricorso della società: la Suprema corte decide nel merito rigettando l’originario ricorso del lavoratore, mentre il sostituto procuratore generale concludeva per il rigetto.
Sbaglia la Corte d’appello a condannare l’azienda al pagamento della tutela indennitaria di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 04/03/2015, n. 23 nella misura di sei mensilità perché il datore avrebbe violato l’obbligo di repêchage: pur se non idoneo alle mansioni previste per l’apprendistato, il lavoratore avrebbe comunque potuto svolgere funzioni d’ufficio o attività previste per il livello inferiore.
Il punto è che il contratto è professionalizzante: l’apprendista può essere adibito soltanto ai lavori che riguardano la specialità cui si riferisce il tirocinio mentre il datore di lavoro decade dalle agevolazioni sui contributi se la formazione non è adeguata agli obiettivi propri del contratto. Di più: se l’azienda non adempie gli obblighi di formazione, il rapporto si trasforma fin dall’inizio in subordinato a tempo indeterminato.
Ius variandi. L’azienda non può adibire l’apprendista a mansioni diverse da quelle previste dal contratto e finalizzate all’acquisizione delle specifiche competenze professionali, il che limita in modo chiaro il tipico potere organizzativo del datore. Se dunque l’apprendista non è idoneo a ricevere la formazione necessaria al conseguimento della qualifica, il datore può recedere dal contratto senza ulteriori obblighi.
Il nuovo regime Iva per sport e terzo settore non partirà a gennaio 2025. Sarà inserita una proroga in manovra, per poi definire un sistema con dei paletti «entro i quali si rimane nell’ambito di esclusione». Ad affermarlo il viceministro dell’economia Maurizio Leo, intervenuto ieri all’assemblea della Cia-Agricoltori italiani. Leo ha ripreso a stretto giro le parole pronunciate dal viceministro del lavoro con delega al terzo settore Maria Teresa Bellucci, che tre giorni fa (il 27 novembre), aveva parlato di uno slittamento dei termini e del dialogo in corso con il Mef.
Proroga in manovra. Arriva, quindi, la conferma: nella legge di bilancio in discussione in questi giorni in Parlamento ci sarà la proroga dell’entrata in vigore del nuovo regime Iva per sport e terzo settore. A partire dal 1° gennaio 2025, tanto gli Ets quanto Asd e Ssd (Enti del terzo settore, Associazioni e società sportive dilettantistiche), sarebbero passate dal regime di esclusione a quello di esenzione Iva, con la conseguenza di nuovi adempimenti (apertura della partita Iva e registratore di cassa, solo per fare due esempi). Un passaggio che «crea problemi, ne siamo consapevoli», come affermato da Leo ieri. «Per questo, come governo, nella prossima legge di bilancio vogliamo prorogare questo ambito di applicazione; quindi, rimane ancora un meccanismo di esclusione Iva per il 2025». Ma non è tutto, visto che «l’obiettivo è quello di fissare paletti e indicatori entro i quali si rimarrà comunque nell’ambito dell’esclusione». Le parole di Leo, quindi, aprono a possibili differenziazioni sull’applicazione dell’imposta in base alla grandezza dell’Ets o dell’Asd interessata, andando ad agevolare le realtà più piccole.
Il dialogo con l’Europa. La partita non è limitata ai confini nazionali, anzi. Il campo di gioco più importante è a Bruxelles. Questo sia per la questione Iva che per l’atteso parere Ue sul regime fiscale introdotto dalla riforma, che segnerà il destino delle Onlus. Sul punto, Leo ha citato il ruolo che potrà avere il nuovo commissario Raffaele Fitto: «lasceremo, quindi, l’esclusione per il 2025, ma al contempo fisseremo dei paletti, questo sempre in un clima di dialogo che si deve fare con l’Ue. Fitto», il pensiero di Leo, «avrà un ruolo fondamentale per far capire all’Ue che entro un certo tetto possiamo restare nell’ambito dell’esclusione». L’Iva, ha poi spiegato Leo, «è un tributo comunitario, armonizzato, dove non c’è sovranità piena e tutta la normativa deve necessariamente essere conforme alle regole fissate a livello Ue. Per quanto riguarda il mondo degli enti non commerciali la disciplina era quella dell’esclusione dal campo di applicazione dell’Iva, ma sono intervenute una serie di procedure di infrazione», ha concluso il sottosegretario.
Appello accolto. La notizia è stata accolta con entusiasmo dal comparto, in particolare dal Forum terzo settore, che nelle ultime settimane aveva lanciato un appello proprio sul tema Iva: «Apprendiamo con piacere l’intenzione di inserire in manovra la proroga del regime Iva per gli Ets e attendiamo di vedere la norma inserita nel testo. L’obiettivo è quello di giungere a una soluzione definitiva, che eviti le proroghe annuali», le parole di Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum.
L’inquadramento ai fini previdenziali dell’Inps vale anche ai fini Inail. A ribadirlo è la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 28531 del 6 novembre 2024 confermando il principio per cui a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 88/1989 la classificazione dei datori di lavoro, operata dall’Inps sulla scorta dei criteri dettati dall’art. 49 di tale legge, ha effetto a tutti i fini previdenziali e assistenziali e, quindi, anche ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali gestita dall’Inail.
L’inquadramento spetta all’Inps.L’inquadramento (ovvero la classificazione di un datore di lavoro, cioè un’azienda o lavoratore autonomo con dipendenti assunti) ha una particolare importanza, perché determina la misura della contribuzione dovuta. Con questa operazione, il datore di lavoro è inquadrato (appunto) in un settore economico e merceologico in relazione all’attività effettivamente esercitata con i lavoratori dipendenti.
All’inquadramento provvede l’Inps, per quanto riguarda i contributi ai fini previdenziali (pensioni, etc.) e assistenziali (malattia, maternità, etc.); l’Inail, per quanto riguarda il pagamento dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
L’inquadramento ai fini Inail.L’inquadramento fatto dall’Inail, tuttavia, non è un’operazione completamente autonoma: deve risultare, infatti, sempre conforme all’inquadramento fatto dall’Inps. Pertanto, l’Inail effettua il suo inquadramento in via “provvisoria” per poi procedere a un’eventuale “rettifica”, a partire dalla data d’inizio dell’attività, in caso di inquadramento diverso operato dall’Inps. Soltanto in alcuni limiti casi particolari, operano delle deroghe (indicate in tabella).
La questione dell’autonomia di classificazione. La disciplina sull’inquadramento dei datori di lavoro è contenuta nella legge n. 88/1989 che, in via di principio, stabilisce che all’operazione vi provveda l’Inps. Ciò ha prodotto, nel tempo, il dibattito in giurisprudenza in merito alla validità dell’inquadramento e successive variazioni operate dall’Inps nei confronti di tutti gli altri enti.
Un dibattito che ha messo a confronto da una parte i favorevoli alla tesi dell’esclusività dell’inquadramento operato dall’Inps, quindi per tutti i fini previdenziali e per tutti gli enti di previdenza; dall’altro i favorevoli a un potere di inquadramento limitato dell’Inps, perché in parte affidato anche agli altri enti.
Sulla questione, oltre a numerose pronunce della Cassazione, è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 378/1994, da cui n’è scaturita la riforma della legge n. 662/1996), facendo notare, tra l’altro, la necessità di uniformare l’operazione d’inquadramento per mettere fine a evidenti situazioni di disparità all’epoca esistenti, in presenza di identiche attività imprenditoriali, ma classificate diversamente a seconda dell’ente di riferimento.
A partire dal 1° gennaio 1997, pertanto, l’inquadramento dell’Inps, secondo i criteri dettati dall’art. 49 della legge n. 88/1989, è unico e valido per tutti i datori di lavoro (si veda altro articolo in pagina).
Ultimo atto.Come prima accennato, in virtù della disciplina vigente l’Inail opera il proprio inquadramento in via “provvisoria”, procedendo successivamente all’eventuale rettifica, con effetto retroattivo dalla data d’inizio dell’attività, in caso l’Inps effettui un inquadramento diverso.
Ciò è successo a un datore di lavoro che, non convinto dell’interpretazione dell’art. 49 della legge n. 88/1989, ha impugnato il provvedimento di rettifica dell’Inail. La questione è arrivata in Cassazione, con il datore di lavoro che contesta l’inquadramento operato dall’Inps e l’applicabilità automatica all’Inail. Già in secondo grado, in realtà, la Corte di appello aveva accertato che l’Inps aveva disposto l’inquadramento e osservato che l’Inail, «senza margini di apprezzamento, doveva conformarsi, ai sensi del cit. art. 49, al provvedimento adottato dall’Inps».
Secondo la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata dal datore di lavoro è corretta, perché con essa la Corte di appello ha «rettamente applicato il principio» sull’inquadramento previdenziale. Principio da sempre affermato dalla giurisprudenza della corte di Cassazione e a cui si allinea anche con la recente ordinanza n. 28531 del 6 novembre, dandone continuità. Principio secondo cui «a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 88 del 1989 la classificazione dei datori di lavoro operata dall’Inps sulla scorta dei criteri dettati dall’art. 49 della stessa legge ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali… e, quindi, anche ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali».
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