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Autore: mondolavoro

Infortuni, le falle del Dvr salvano il delegato

Dopo l’infortunio sul lavoro non si può condannare il delegato alla sicurezza in azienda per lesioni colpose per le falle che emergono nel documento di valutazione dei rischi (Dvr).

La delega al dirigente della società non può trasferire all’imputato compiti e responsabilità che sono invece del datore di lavoro, legati al fattore di rischio individuato ad origine del sinistro: è un aspetto compreso nel contenuto essenziale del Dvr e non un elemento contingente dell’organizzazione del lavoro all’interno del cantiere.

Così la Corte di cassazione penale, sez. quarta, nella sentenza n. 39168 del 25/10/2024.

Posizione di garanzia. Accolto il ricorso del dirigente condannato per l’infortunio occorso all’operaio durante il carico dei pannelli prefabbricati sul rimorchio dell’automezzo: complice il vento, una delle capriate si rovescia addosso al lavoratore che riporta lesioni guaribili in più quaranta giorni. In azienda c’è la prassi di legare con fasce tutti i pannelli soltanto al termine del carico.

All’imputato si addebita di non aver organizzato l’attività in modo da assicurare la stabilità dei pannelli in ogni fase dell’operazione, mentre il Dvr si limita a prevedere che lo stoccaggio avvenga in modo ordinato. Dopo il sinistro è inserita una regola precauzionale per ogni pannello.

Coglie nel segno la censura che contesta la violazione di legge e il vizio di motivazione: si finisce per attribuire al dirigente, in virtù della delega, la posizione di garanzia del datore delegante, il quale deve valutare tutti i rischi connessi al lavoro, individuare le misure cautelari per prevenirli e vigilare che siano osservate.

Motivazione contraddittoria. La Corte d’appello non spiega perché doveva essere il delegato a prescrivere regole di precauzione per integrare il Dvr lacunoso al posto del datore e in una materia che quest’ultimo non può delegare: l’inadeguatezza dell’originario documento di valutazione deve ritenersi dimostrata dal fatto che dopo il sinistro risultano invece predisposte adeguate cautele.

Quota 103, presentate soltanto 1.600 domande

Il recente «giro di vite» legislativo sul ritiro anticipato dal lavoro mostra i suoi primi effetti, nel nostro Paese: ad oggi, infatti, ammontano a circa 1.600 le domande di adesione alla cosiddetta Quota 103 (frutto della somma fra 62 anni di età e 41 di contributi), un numero risicato, anche in virtù della «scarsa convenienza del calcolo contributivo» del trattamento che si andrà ad incassare.

E, se si guarda all’impiego di forme di previdenza complementare, «è evidente» che gli occupati che vi aderiscono «non hanno problemi di superamento della soglia prevista per il pensionamento all’età di vecchiaia», mentre sarebbe «diverso il discorso», qualora le rendite integrative potessero essere usate per il raggiungimento dell’importo soglia fissato per la prestazione di vecchiaia anticipata all’età di 64 anni e con almeno 20 anni di versamenti.

È quel che ha espresso ieri mattina il presidente dell’Inps Gabriele Fava, partecipando all’audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato sulla Legge di Bilancio, occasione per accendere i riflettori pure sulle difficoltà di applicazione della decontribuzione della quota dei contributi a carico delle lavoratrici madri di due, o più figli alla componente autonoma: se, infatti, recita la memoria consegnata in Parlamento, nel successivo decreto ministeriale attuativo «potrebbe agevolmente essere previsto il limite di reddito mensile per permettere la corretta individuazione della platea» delle addette subordinate beneficiarie dello sgravio, per chi esercita l’attività in forma indipendente permane la complessità di «verificare preventivamente nell’anno in corso il reddito da lavoro percepito ai fini della quantificazione dell’ammontare del bonus spettante».

A giudizio della guida dell’Istituto di previdenza pubblico, infine, per rivitalizzare il nostro mercato e fornire una «concreta risposta ai bisogni delle imprese, sarebbe auspicabile» il ricorso alle agenzie per il lavoro private nel reclutamento e, a seguire, nella collocazione di occupati stranieri nelle proprie aziende clienti.

Residenza fiscale delle persone fisiche e delle società: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate


L’Agenzia delle Entrate – con Circolare del 4 novembre 2024, n. 20/E – ha fornito le istruzioni operative agli uffici in tema di residenza fiscale delle persone fisiche e delle società ed enti, alla luce delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 209/2023.

Al riguardo, è stato ribadito che dal 1° gennaio 2024, si considerano residenti fiscali in Italia, le persone fisiche che hanno, alternativamente, per la maggior parte del periodo d’imposta: la residenza nel territorio dello Stato, il domicilio, sono presenti, anche per frazioni di giorno, oppure sono iscritte nell’anagrafe della popolazione residente, avete quest’ultimo carattere di presunzione relativa (è ammessa la prova contraria).

In merito al nuovo criterio basato sul domicilio in Italia, viene ritenuto per tale il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona.

Il legislatore privilegia le relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche, consentendo, altresì, di risolvere le incertezze che si sono generate negli anni in virtù del rinvio al domicilio civilistico da parte dell’art. 2 del TUIR.

Nella nozione di relazioni personali e familiari rientrano sia i rapporti tipici disciplinati dalle vigenti disposizioni normative (es: il rapporto di coniugio o il rapporto di unione civile), sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato (ad esempio, nel caso di coppie conviventi).

Parimenti, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali del contribuente nella misura in cui risulti da elementi certi, come ad esempio, l’iscrizione annuale a un circolo culturale e sportivo.

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