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La gig-economy arruola 2,2 milioni di lavoratori

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Guadagna terreno (anche) in Italia la cosiddetta «economia dei lavoretti», ossia l’attività svolta attraverso l’intermediazione online: si contano, infatti, almeno 2,2 milioni di connazionali che hanno reso noto di aver percepito un reddito attraverso una piattaforma digitale, pari all’1,5% della popolazione compresa nella fascia 18-74 anni.

E le mansioni che «viaggiano in rete» sono, oramai, variegate, giacché, oltre ai (diffusissimi) servizi di consegna di cibo e prodotti (che riguardano almeno la metà degli incarichi effettuati), avanzano mestieri domestici e di assistenza alla persona, generando un impatto sempre più significativo sul Pil (Prodotto interno lordo), nonché stimolando «la creazione di occupazione e l’innovazione nella creazione e distribuzione dei servizi».

È ciò che si legge nel rapporto «Fairwork Italia 2024», curato dall’università la Sapienza di Roma, a cui hanno partecipato ricercatori dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) in collaborazione con l’ateneo di Oxford, illustrato ieri, nella Capitale; stando all’«identikit» di chi agisce nel quadro della «gig-economy» che si è potuto tracciare, si scopre che si tratta in prevalenza di uomini di età compresa fra i 30 ed i 49 anni, di cui la maggior parte «ha completato l’istruzione secondaria (45%)», mentre quasi il 20% è in possesso di una laurea.

Dalle interviste che sono state condotte su un campione rappresentativo di lavoratori sulle piattaforme, poi, si scopre che quasi la metà (il 48%) ha dichiarato che quanto riesce a incassare attraverso le prestazioni attivate via web costituisce «una parte importante del bilancio familiare» e per il 32% tali proventi sono diventati «essenziali» per il proprio sostentamento.

A colpire, in conclusione, è la rivelazione del 50% degli interpellati, che ha motivato la scelta di impegnarsi in mansioni mediate online a causa della «mancanza di alternative nell’accesso al mercato del lavoro», nonché la condizione di oltre il 31% dei «gig-workers» privi, hanno segnalato, di un contratto scritto.

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